Elisabetta Borgia Abbiamo scambiato due parole con Elisabetta Borgia, psicologa delle sport del team Trek-Segafredo

Elisabetta Borgia Abbiamo scambiato due parole con Elisabetta Borgia, psicologa delle sport del team Trek-Segafredo

Ciao Elisabetta, partiamo dall’inizio. Ciò che gli appassionati vedono in tv sono atleti che pedalano per chilometri per vincere una gara, non si vede tutto ciò che avviene dietro le quinte: dagli allenamenti, all’alimentazione, e anche ciò che avviene nella testa dei corridori. A proposito di questo, ci spieghi in cosa consiste maggiormente il tuo lavoro?

Il mio è un lavoro che si svolge su tre livelli all’interno del sistema squadra: l’individuo, il gruppo e la struttura. In parole semplici, svolgo un ruolo di supporto per tutte le figure che operano all’interno del contesto Trek-Segafredo affinchè questa complessa “macchina”, di oltre cento persone, funzioni in maniera armoniosa.
L’individuo, in squadra, è per eccellenza il singolo atleta. Per ognuno cerco di aiutarlo a raggiungere l’obiettivo di massimizzare la performance, di migliorare e di avere consapevolezza nei suoi punti di forza. Il dialogo che intrattengo con loro mira a definire il punto di partenza, dove vuole arrivare e quali sono gli aspetti sui quali deve lavorare per arrivare agli appuntamenti che contano nel modo migliore.
Poi c’è da curare la dinamica di gruppo. Attraverso attività di team building per creare coesione e costruire quell’atmosfera in cui ognuno può esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. Il terzo livello riguarda invece il supporto all’organizzazione della squadra, intesa come management e staff. Il nostro è un piccolo ecosistema nel quale, nel bene e o nel male, un qualsiasi elemento può condizionare il funzionamento generale.

 

La tua vicinanza ai corridori avviene in modo costante durante tutto l’arco dell’anno, o maggiormente in particolari momenti della stagione?

Il mio lavoro non è puntiforme, non si concentra sul momento, ma mira a costruire un processo, a creare un’alleanza. I ritiri pre-stagionali, in inverno, sono tra i più importanti. Lì si pongono le basi, si fissano gli obiettivi e il percorso di miglioramento che intendiamo intraprendere. I ritiri sono la miglior opportunità per parlare con calma, vis a vis. Con i nuovi atleti è il momento della prima conoscenza.

Quando la stagione parte, sono presente nei giorni precedenti gli appuntamenti clou. Sarebbe bello lavorare a fondo nel contesto gara, ma è assolutamente irrealistico. Il mio obiettivo pertanto è costruire un percorso che permetta all’atleta di affrontare l’evento clou nella migliore condizione. Cerchiamo di avere un rapporto costante durante l’anno con telefonate, video call o semplicemente messaggi audio. Il “segreto” per un il successo momentaneo sta nella capacità di rendere efficace il percorso che ti porta a quel giorno.

 

Quanto incide la vita privata sulle prestazioni di un atleta? E i corridori si confidano facilmente anche su ciò che non riguarda il proprio lavoro?

Dobbiamo partire dall’idea che un atleta è, innanzitutto, una persona ed è difficilissimo separare i due piani. Credo che questo valga per qualsiasi essere umano. Ci sono aspetti della vita privata che possono condizionare in maniera sensibile la vita da atleta. Spesso sulla bici portano problematiche che poco c’entrano con la loro professione. Una separazione, la nascita di un figlio o più semplicemente la difficoltà di stare lontano da casa per tanto tempo. Sta all’atleta gestire il livello di profondità e apertura che vogliono avere con me. Questo è il punto di partenza della nostra collaborazione. Io lavoro nell’ambito sportivo ma ho un background come psicologa clinica. Se, negli incontri, gli atleti vogliono parlare della loro sfera privata, sono bel lieta di offrire la mia esperienza e il mio punto di vista, ma non è mai una mia richiesta.

 

Lo stress e l’ansia sono elementi presenti con frequenza nella vita dei corridori?

Assolutamente sì, in primis ansia da prestazione, di dover mostrare e dimostrare il proprio valore. La costante che però ritrovo in tantissimi atleti, per non dire tutti, è l’alto livello di stress a cui sono sottoposti. Nel recente passato, agli atleti veniva chiesto “solo” di performare, di avere successo attraverso le prestazioni sportive. Ora non basta più, stiamo vivendo un momento storico nuovo. Agli atleti viene chiesto di essere personaggi pubblici, con tutto ciò che comporta in termini di esposizione. Per loro è sempre più difficile avere momenti off, di reale stacco e riposo. Sono iperstimolati da una serie di variabili che portano con sé un enorme carico di stress.
Credo che per figure come la mia, sarà sempre più frequente dedicarsi alla gestione di questo stress. E’ un fattore che logora gli atleti e che, nei peggiori dei casi, può portare a sindromi come il burnout, ovvero la completa perdita dell’energia psicofisica per affrontare le sfide sportive o, più banalmente, il turbinio della vita da atleta.

 

In un momento storico in cui i social sono i format di comunicazione più utilizzati tra le persone, quanto risultano difficili da gestire e da far digerire i commenti e le critiche che arrivano ai vari corridori su questi canali, in momenti magari già di per sé abbastanza complicati?

Partiamo da un esempio che la dice lunga su questo aspetto. Fino a quindici anni fa, la comunicazione degli atleti al pubblico avveniva con interviste spesso su magazine mensili. Ora, attraverso i social, possono comunicare direttamente con i tifosi fino a pochi istanti prima dell’inizio di una gara o immediatamente dopo.
I social hanno creato un filo diretto con il quale chiunque può permettersi di dire la sua, di commentare o, peggio, giudicare pesantemente le performance di un atleta. Questo è qualcosa che inevitabilmente destabilizza. E’ un aspetto sul quale lavoriamo spesso: la capacità di estraniarsi e concentrarsi su di sé. La nostra mente ha un limite, che è quello di processare una informazione alla volta. E’ fondamentale che gli atleti si concentrino sul “qui ed ora” oltre che su se stessi. Ha poco senso focalizzarsi sull’avversario o, nel caso della comunicazione, sul pensiero del tifoso.
La maggiore difficoltà in questo è quando la prestazione non arriva, ma è proprio lì che si migliora. Bisogna avere la capacità di crearsi una bolla per non farsi toccare dai commenti esterni. Questo è il consiglio che do agli atleti in particolare prima dei grandi appuntamenti.

 

Quali differenze trovi nel gestire il tuo lavoro con il team maschile e quello femminile?

Se partiamo dall’assunto che i due team hanno lo stesso livello di professionalità e supporto, come avviene in Trek-Segafredo, uomini e donne, in quanto esseri umani, differiscono in qualcosa. L’esperienza mi ha mostrato, per esempio, quanto l’emotività e la sensibilità sia più spiccata nelle donne, insieme alla capacità di essere estremamente rigorose quando hanno un obiettivo da raggiungere. In casi estremi, possono avere un approccio che le porta a fissarsi sui dettagli quasi in maniera ossessiva, tale da diventare un limite in quanto crea un dispendio energetico notevole. Anche le dinamiche di gruppo sono diverse, specialmente nel post gare. Il team femminile richiede maggiori momenti di debriefing per aiutare le ragazze ad esplicitare un eventuale malcontento senza portarsi degli strascichi.

 

Nel tempo che hai avuto modo di trascorrere in questo ambiente, quando hai “sentito” una vittoria particolarmente tua?

C’è un enorme sentimento di gratificazione quando vedi un atleta vincere, ma non ho mai il pensiero di aver fatto vincere qualcuno. Mi sento parte di un processo, sento di aver dato il mio, ma difficilmente c’è la sensazione di una “mia” vittoria.
Negli anni ho creato relazioni speciali con alcuni atleti. Ciò che rende questi rapporti più profondi è sentirsi parte del loro processo di crescita e miglioramento. Questo è ciò che più mi gratifica e mi trasmette la gioia che un buon risultato porta con sé. E’ ciò che mi fa sentire una privilegiata nel fare questo lavoro.

 

Nel riuscire a far trovare l’equilibrio nelle persone con cui lavori, riesci a trovare anche il tuo?

Credo sia la sfida di tutti. Sento di aver acquisito, negli anni, una buona consapevolezza di me. Aver lavorato con le persone e le loro sofferenze è stato il modo per “curare” me stessa, ma non dimentico mai la complessità e le nuove sfide che il lavoro mi porta ad affrontare. Pertanto, mantenere un equilibrio non è mai semplice. C’è bisogno di investire nuove energie, di rinnovare la capacità di concentrazione e ascolto. Le persone si aprono mostrandomi spaccati del loro vissuto e questo merita un approccio responsabile, oltre che rispettoso.
Il rischio di destabilizzazione è alto anche perché, oltre che una professionista, sono una mamma e una moglie. Sono spesso in viaggio, ho una vita frenetica e far coincidere gli impegni richiede energie. Da anni seguo un percorso con uno psicoterapeuta per osservare la vita che mi circonda con con prospettive diverse dalle mie. E’ un percorso di consapevolezza che mi aiuta a tenere a fuoco i miei personali obiettivi, che mi aiuta a mantenermi serena ed equilibrata anche nei momenti di maggiore stress.

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