Dalla Georgia alla Turchia, per poi rientrare in Europa I nostri amici di Lifeintravel.it in sella alle loro Trek 920 si stanno attualmente avventurando su strade impervie e piene di sorprese. Ecco il loro racconto al termine della prima parte di viaggio, iniziata e conclusa in Georgia.
Articolo di Lifeintravel.it per Trek
Le nostre stagioni solitamente sono invertite: l’estate è fatta per fantasticare e l’inverno è il periodo giusto per estrapolare dal gigantesco cassetto dei sogni un jolly da utilizzare.
L’anno scorso il Covid ci ha fregato, ma quest’anno abbiamo giocato d’anticipo e siamo partiti in autunno per un viaggio incredibile che stiamo tuttora affrontando.
#backtothewest è un elisir di rinascita per noi cicloviaggiatori compulsivi. È un’avventura al contrario: dalla Georgia, paese in bilico tra Asia ed Europa, a Istanbul, porta d’Occidente e città d’ingresso nel Vecchio Continente.
Prima d’iniziare a seguire il sol calante, la nostra traccia si è arenata in un serpeggiamento all’apparenza senza senso ai piedi delle alte vette del Caucaso e vale la pena raccontare queste divagazioni perché rappresentano un distillato di emozioni.
Siamo costretti a fare una premessa, però. Sì, perché già raggiungere le sponde orientali del mar Nero ha rappresentato una sfida non da poco. Nala è la causa di tutto ciò. Ti chiederai: “Chiiii?”.
Nala, la meticcia di 5 anni che ha cambiato drasticamente il nostro stile di viaggio da quando è entrata nelle nostre vite, all’età di 4 mesi.
Da quel lontano 2017 ci trasciniamo un carrellino di 13 kg su cui farla riposare quando le tappe quotidiane diventano troppo lunghe o quando le strade solcate sono inadatte alla sua camminata. Il resto lo “pedala” al nostro fianco.
Oltre a questo, niente più aerei per raggiungere il punto di partenza: per il momento preferiamo evitarle lo stress di viaggiare a 10000 m d’altezza. Questo implica che i nostri viaggi non si possano più svolgere nell’emisfero australe dove le stagioni s’invertono e gli inverni sono miti o, addirittura, caldi. Ogni anno, da quel giorno, la ricerca di località dalle temperature abbordabili diventa sempre più complessa e selettiva.
Questa volta, nelle famose fantasticherie estive che hanno anticipato la partenza, siamo capitati su alcuni tracciati nel Caucaso georgiano e ce ne siamo subito innamorati. Per raggiungere l’ex repubblica sovietica però, il viaggio in auto sarebbe stato eccessivamente lungo e così ci è balenata per la mente l’idea di sfruttare l’acqua del mar Nero con l’unico collegamento marittimo disponibile… da Odessa!
Studiato sulla carta, il viaggio fino al porto ucraino, non sarebbe stato così tremendo, ma le strade che sulla mappa sono semplici linee rosse, gialle e bianche, nella realtà diventano autostrade, strade scorrevoli e stradine di campagna da 50km/h.
3 giorni d’inferno, pioggia e nebbia ci hanno portato sulle sponde di quel mare che ha l’unico sbocco nel Bosforo. I venti e le onde ci hanno costretto a rimandare la partenza di altri 4 giorni e infine 3 notti sul traghetto per sbarcare a Poti, in Georgia. In totale dieci giorni!
Finalmente siamo saltati in sella. Abbiamo iniziato #backtothewest verso… est. Due giorni di pianura, tra fango, cani randagi, maiali e vacche sono stati sufficienti per portarci ai piedi del Caucaso. Il battesimo selvaggio è stata una notte in tenda al cospetto delle vette innevate, a due passi da Zugdidi. La strada serpeggia seguendo la valle dell’Enguri, in un continuo saliscendi snervante. I villaggi sono pochi e remoti. L’Ushba, 4710 m, è un gigante di roccia e ghiaccio che ricorda il nostro Cervino e che appare all’improvviso mentre si pedala ignari verso Mestia. Le torri medievali punteggiano ogni paese mostrandosi in tutta la fierezza difensiva di cui sono capaci e noi ci siamo fatti cullare dal suono gentile della ruota che avanza lenta, ma inesorabile, nella patria del popolo degli Svaneti
Il risveglio a Mestia è stato monocromatico. La neve scendeva copiosa sulle torri spingendoci a rimandare di un giorno la partenza verso i villaggi più a monte.
La scelta è stata azzeccata. Il sole ha ricominciato a splendere sciogliendo l’esile strato bianco accumulatosi sulla strada. Abbiamo risalito rapidi e fiduciosi il primo valico, per poi gettarci a capofitto nella vallata fino a Ushguli.
Tutto è andato per il meglio fino a Kala, dove fervevano i lavori di pavimentazione della strada. Gli ultimi 10 km sono stati uno spettacolo di fango e ghiaccio, roccia e neve. Sono servite 2 ore abbondanti per raggiungere la nostra destinazione di giornata, ma quando il tramonto ha illuminato le vette più alte della Georgia, siamo rimasti a bocca aperta e goderci l’ultimo raggio di sole scendere dietro le vette caucasiche. Lo Shkhara, la montagna più alta della Georgia con i suoi 5200 m, svetta imponente all’orizzonte oltre il quale si trova la Russia; lei veglia – e sempre veglierà – sulle 70 famiglie svaneti che abitano ancora resilienti questo angolo remoto di mondo.
Fin dalla partenza di questo viaggio, il passo Zagari, tra Bassa e Alta Svanezia, è stato una chimera. Il collegamento tra Alta e Bassa Svanezia è uno di quegli itinerari che ti regalano la sensazione di essere minuscolo e allo stesso tempo grandioso.
Le curve che conducono ai 2610 m sono dominate da picchi di roccia imponenti e maestosi, che dividono la Georgia dalla Russia. L’Ailama raggiunge i 4547 m e i ghiacci perenni la cingono mentre lei osserva immota i viaggiatori e i nomadi che da millenni solcano la conca sottostante.
La giornata perfetta. Poca neve, sole splendente e una gran voglia di pedalare fin lassù, poi la discesa eterna sotto il volo sicuro del gipeto che pattuglia queste lande desolate.
Saranno necessari altri tre giorni per uscire definitivamente dal Caucaso e raggiungere Kutaisi, tra vallate idilliache, canyon angusti e arzigogolati e monasteri patrimonio UNESCO.
Costeggiando il confine (non chiamatelo così in presenza di un georgiano) con l’Ossezia del Sud, abbiamo infine raggiunto, scortati dalla polizia per qualche chilometro, il punto di partenza del tratto di strada più entusiasmante di questa seconda parte di viaggio, che non poteva essere più malaugurante: un cimitero.
Sì, perché dopo aver lasciato il centro di Gori, città natale di Stalin, ci siamo trovati a scalare una collina con una delle solite strade al 1000% di pendenza fino alla chiesa di San Giorgio.
Con alle spalle le ultime tombe – a proposito, trovo meraviglioso che qui siano immancabili una panca e un tavolino a fianco dell’effige del morto, per venirlo a trovare, fare uno spuntino insieme e quattro chiacchiere – mi è sembrato di ritrovarmi a teatro e assistere a un repentino cambio di scena. I boschi colorati d’autunno hanno lasciato spazio a distese di steppa arida e secca.
La sabbia ha preso il posto dell’argilla. L’arenaria ha sostituito il granito.
Due strisce parallele create dal ripetuto passaggio dei veicoli si allontanavano all’orizzonte seguendo il corso del fiume.
Passata un’infinita distesa di mandorli, ci siamo inoltrati in questo mondo fuori dal mondo. Facendoci guidare dalla traccia di sentiero – e dall’istinto – siamo giunti ai piedi dell’antica città rupestre di Uplistsikhe, risalente all’età del ferro.
Il sole è lentamente calato all’orizzonte mentre noi ci arrampicavamo tra le case scavate nella roccia. La luce radente ha regalato una degna conclusione a una giornata iniziata sottotono e andata via via in crescendo.
Dopo un riposo meritato di qualche giorno nella meravigliosa Tbilisi, abbiamo ascoltato nuovamente l’intenso richiamo delle montagne, decidendo di esplorare il Caucaso Minore, catena che scivola a Occidente verso l’Anatolia e a sud verso l’Armenia.
La nostra risalita a quote alpine è coincisa con l’arrivo di un amico. Il vento.
Per qualcuno è portatore di risposte. Per noi ciclisti è quasi sempre indice di rogne all’orizzonte.
Puntuale come il canto del gallo all’alba, si è alzato nei giorni in cui abbiamo affrontato l’ascesa verso le lande brulle e aperte del Caucaso Minore. Non una roccia dietro cui ripararci, non un albero con cui proteggerci dalle sue sferzate. E lui che soffiava rigorosamente in faccia.
Il minuscolo villaggio di Akhali Khulugmo con le sue numerose case ormai abbandonate da anni, è stato il primo centro abitato – se così si può dire – sulla sterrata che costeggia il lago Paravani, un bacino di origine vulcanica a 2075 m. Il paesaggio punteggiato da perfetti coni, arido e ingiallito, mi ha ricordato quello delle steppe delle Ande boliviane.
Lungo le sponde umide battute dal gelido vento di nord-ovest si possono incontrare i pastori semi-nomadi turchi con le mandrie, le greggi e gli immancabili cani pastore. Per trascorrere la notte è stato provvidenziale un bosco di conifere piantumate per riforestare la zona anche se, le rigide temperature ampiamente sotto lo zero, ci hanno fatto tremare nei nostri sacchi a pelo pesanti dentro ai quali abbiamo dormito completamente vestiti.
La Turchia ci ha respinto in questo territorio a maggioranza armena poiché, inaspettatamente, troviamo il confine chiuso a causa del Covid. L’unica soluzione è tornare sul mare dove invece il passaggio doganale è accessibile anche a noi viaggiatori. Ogni imprevisto è un’occasione e non ce la facciamo sfuggire, visitando il monastero rupestre di Vardzia e la fortezza imponente di Akhaltsikhe.
L’avventura in Georgia si è chiusa dove era iniziata, sulle sponde del mar Nero. E il finale è identico alla partenza, anche grazie al fango e alla pioggia che sono tornati a farci visita proprio sulle mille curve del passo Goderdzi, ultima asperità prima di ritornare a quota 0.
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